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Vi segnalo "Apro gli occhi" dell'autore Dario Vergari,
edito Brè Edizioni.
Titolo: Apro gli occhi
Autore: Dario Vergari
Genere: Romanzo noir-horror
Casa editrice: Brè Edizioni
Disponibile in ebook a € 3,99
E in formato cartaceo a € 14,25
TRAMA:
Un puzzle. Apro gli occhi è un romanzo puzzle, lo si capisce subito. Decine di caselle, frammenti, vite, persone, vicende, misteri, delitti, morti che diventano orrore puro, ma anche terrorismo, rivoluzioni, rivoluzionari, pazzi, santi, brave persone e mostri umani.
Dario Vergari, con rara abilità, ci porta in un viaggio tra i misteri d’Italia, vicende a tutti note che si mescolano tra fantasia e incubo, tra realtà e ossessioni in grado di portare alla pazzia i protagonisti di questo giallo horror. Aprite gli occhi, tutto sta per accadere!
BREVI ESTRATTI:
Lo scheletro di Cesare si sveglia correndo nel bosco buio, si tasta le gambe, le braccia, il torace. Tutto regolare… ha un attimo di esitazione prima di portare le mani al viso. Cosa succederebbe se un dito si conficcasse in un’orbita vuota? Continuerebbe a urlare finché ha fiato, questo è certo. Per sua fortuna la faccia è ancora lì, molliccia, stropicciata e sudata. Non è un bell’incontro con sé stessi di primo mattino, ma quanto basta a capire di avere sognato, e di essere ancora abbastanza vivo. La sua faccia allo specchio conferma l’impressione, nessun morto potrebbe avere un aspetto più insalubre: occhi rossi, pelle flaccida, doppio mento e barba ispida. Tira fuori la lingua e con la velocità di un ramarro la ritrae disgustato. Si guarda la pancia che ormai da anni ha rinunciato a contenere entro limiti dignitosi.
«Che schifo invecchiare» confessa al tubetto di dentifricio. Getta un’occhiata sospettosa alla bilancia e poi con un piede le dà una spinta fino a rispedirla sotto il mobiletto degli asciugamani.
Occhio non vede, pancia non duole.
Uscire dal vagone ferroviario che ferma in Centrale, è come uscire da un’incubatrice incrostata di sonno e catarro da fumatore. Respira una boccata d’aria gelida e dribbla la folla per infilarsi veloce nella galleria della metropolitana.
“Sono troppo vecchio per fare questa vita” pensa scansando valige e borsoni. Mancano solo centoquarantaquattro giorni alla fine di maggio. All’inizio della temuta e agognata libertà. Scende a Missori, come sempre. Come sempre al termine della scala che porta in piazza Velasca l’odore di cipolla che proviene dalla vicina pizzeria gli travolge le narici, l’ombra della Torre gli manda un brivido su per la schiena.
«Salve, dottor Serafini» gli fa il portiere. Cesare grugnisce qualcosa come al solito, potrebbe anche recitare una preghiera o maledirlo in sumero. Quello non si accorgerebbe della differenza, indaffarato com’è a sistemare le buste della corrispondenza nel casellario alle sue spalle. Cesare sale in ascensore, è in notevole ritardo e quando esce al nono piano spera di riuscire a timbrare e a svicolare fino al proprio posto prima che lo Stroppanobili lo veda e si ricordi di avere qualcosa di perfettamente inutile ma necessario da fargli fare. Tanto per divertirsi a far valere il grado di superiore.
Lo stanzone dei comuni impiegati è vuoto. In giro nei corridoi non si vede anima viva, grave indizio di qualcosa che è venuto a turbare i rituali tribali dell’ufficio. Cesare tende l’orecchio, dalla stanza di Malerba, esce un vociare confuso. Vorrebbe ignorarlo e andare a seppellirsi fra i suoi faldoni, tuffarsi nel riportare cifre su colonne, calcolare percentuali e ammortamenti, interessi, semplici e composti, ma sa che è meglio essere al corrente delle novità, prima che qualche furbone sfrutti la sua ignoranza per, ben che vada, farsi gioco di lui. Cesare è sì un pavido, ma se preso in giro reagisce, talvolta in modo spropositato e inopportuno che lo fa sembrare ancora più strano di quel che è. Grazie al suo autocontrollo capita di rado, ma capita.
Entra nella stanza di Malerba dove tutti parlano a voce bassa. Lo guardano di sottecchi ma nessuno lo saluta. Cesare abbozza uno dei suoi rarissimi tentativi di togliersi dall’imbarazzo facendo dello spirito.
«Che succede, è morto qualcuno?» domanda alla persona più vicina, la signorina Villani.
Tutti si voltano verso di lui, alcuni mascherano una risata, altri scuotono la testa in disapprovazione, altri, maschi, si toccano le parti basse.
La signorina Villani dice: «Il commendator Carlomagno. Ieri notte. Un infarto si dice…» la Villani sta continuando a parlare ma Cesare non ascolta più. Pensa al fu direttore che da poco aveva offerto ai dipendenti della Finivel un generoso pranzo a buffet degno di una corte di nobili e Re.
Carlomagno Claudio Fabio Massimo. Era andato in pensione esattamente una settimana addietro, dopo quarant’anni vissuti da dirigente. Settantadue ore di lavoro alla settimana lo avevano mantenuto in vita, dodici ore di lavoro al giorno, che tramutate in ore di libertà lo avevano ammazzato in men che non si dica.
Il chiacchiericcio è ripreso, Cesare sente solo un fischio nella sua testa, quello del rapido che sta per arrivare, prossima fermata 31 maggio. Sarà di certo in orario.
Si avvia verso la sua scrivania, guarda la pila di pratiche da evadere con occhi diversi. Non più come medicina che dà un senso alle giornate, ma come un veleno omeopatico che anno dopo anno gli è entrato nelle ossa, mellifluo e infido. Nondimeno si tuffa nel lavoro, cos’altro potrebbe fare?
È talmente immerso nei conti che la voce di Stroppanobili lo fa sobbalzare sulla sedia, ha sempre il brutto vizio, sicuramente calcolato, di avvicinarsi di soppiatto alle spalle dei dipendenti.
«Dio pazzo. Serafini ti rendi conto? Sei qui che lavori aspettando solo il giorno in cui potrai goderti la pensione e poi…» si passa una mano all’altezza della carotide, che nel suo caso è un gozzo prominente da tacchino «poi ti ritrovi sotto qualche metro di terra senza neanche avere fatto la metà delle cose che volevi.»
Cesare alza la testa dalle carte e lo guarda, vorrebbe pestargli un piede, o dargli un calcio negli stinchi. Qualsiasi cosa per togliergli quel ghigno dalla faccia.
«Meno male che io, gli sfizi che voglio togliermi, me li tolgo subito. Chi gh’ha temp, che’l speta minga temp, Serafini. Ricordatelo eh, prima che diventi vecchio.»
Se ne va ridendo, un istante prima che Cesare perda davvero il controllo sui suoi piedi.
La signorina Villani nota la sua espressione e lo raggiunge reggendo al petto un voluminoso faldone, se lo sistema sull’incavo del braccio quasi volesse allattarlo.
«Ci verrai vero ai funerali domani? Ci saranno tutti, dicono che verrà anche il Pillitteri e il Craxi, ma io non credo. Inizieranno a San Nazaro, alle otto di mattino. Pover’uomo, dopo aver dato la vita per il lavoro non gli era rimasto più niente per cui vivere. Se almeno avesse avuto moglie, o figli. Ma dove lo avrebbe trovato il tempo? Era così operoso, pover’uomo…»
Pover’uomo per modo di dire, pensa Cesare. Si vociferava di un paio di ville a Cortina, una a strapiombo sul mare all’Argentario, una residenza a Favignana che avrebbe fatto invidia a un’aristocratica domus romana, per numero di stanze, piscine, terme, e servitori. Oltre naturalmente alla residenza milanese, degna di un uomo nella sua posizione.
La signorina Villani continua a parlare ma Cesare non ascolta, si limita ad annuire perché sa che questo basta a contentarla. Ha parlato di San Nazaro, dove lavora il tipo della pratica 283/92. Sarà la terza volta in pochi giorni che si incrocia con lui, dopo il primo incontro ufficiale per la richiesta di un prestito e l’incontro casuale in macchina.
Dario M. Vergari nasce a Pesaro. Dopo studi scientifici muove i primi passi nel mondo artistico come compositore, tastierista e cantante del gruppo new wave The Drivers, per poi intraprendere la strada del musicista solista. Esperto fotografo e fin dai primordi dell’informatica appassionato di computer ed elaborazioni grafiche, si dedica ai viaggi e alla conoscenza di altre culture. Nel 2015 pubblica per la Montag il romanzo distopico REVNION, nel 2020 viene rivisto e ripubblicato con la Brè Edizioni, con la quale, nel 2019 aveva esordito con un romanzo di narrativa del futuro: PhoeniX. Negli ultimi anni è stato occupato a scrivere, parlare con i gatti, comporre musica e lavorare alla sua più grande impresa, la propria famiglia.
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