mercoledì 22 dicembre 2021

RECENSIONE "SEMINARE D'ESTATE" di Cecilia Latella

 

Recensione: "Seminare d'estate" dell'autrice Cecilia Latella.
A cura di Daniela Colaiacomo. 



Autore: Cecilia Latella

Genere: Romance storico

Disponibile in ebook a € 2,70

E in formato cartaceo a € 8,84

Contatti autore: Facebook - Instagram 



TRAMA:

Castelfidardo, Ancona, estate 1860. Sullo sfondo della lotta per l’unità d’Italia, una storia d’amore tra classi sociali differenti, un racconto di rinascita, ricomposizione e speranza.
La morte della madre dopo una lunga malattia lascia sola Elisabetta Poggi, un’attempata zitella di trentatré anni. Figlia unica, Elisabetta è l’unica erede della fattoria Poggi, un’azienda un tempo florida ma che si trova da anni in uno stato di declino. Di tutti i dipendenti di un tempo ora ne è rimasto uno solo, Antonio Pueroni, un tuttofare rimasto fedele alla famiglia nonostante le avversità. Spinti da motivazioni diverse, Elisabetta e Antonio scoprono di avere un obiettivo comune, la ripresa della tenuta, e stringono un accordo per risollevarne le sorti. Durante il periodo trascorso lavorando insieme, Elisabetta e Antonio si avvicinano, scoprendo l’una nell’altro un sostegno, un aiuto e, infine, un compagno di vita. Il loro amore è, però, ostacolato da più parti: sia da altri abitanti del paese, sia dall’arrivo della guerra nelle Marche… 



Dire che il libro mi è piaciuto è riduttivo. Cecilia Latella, con il suo stile particolare, il linguaggio accurato, appropriato e pertinente all'epoca, come un viaggio nel tempo, mi ha condotto nell'Italia rurale del 1860, l'anno dell'unificazione ufficiosa dell'Italia: niente saloni e abiti sfarzosi, ma la realtà di un piccolo centro agricolo, qual era all'epoca Castelfidardo, nelle Marche, dove vivere significava lavoro nei campi e sacrificio.  
In un contesto così particolare si svolge la storia di Elisabetta e Antonio. 

Il legno della panca della chiesa, sotto le sue dita, aveva la solita consistenza familiare. Era stato toccato da migliaia di dita, quel legno, e reso liscio dallo sfregamento di polpastrelli e stoffa, lucido anche se la vernice originale doveva essersi ormai persa da anni. Accarezzarlo, stringerlo, mentre il prete parlava, le trasmetteva una sensazione familiare, rassicurante.
Davanti a lei, invece, il legno della bara di sua madre era freddo, ignoto; qualcosa di fuori posto, che non sprigionava né calore né un senso dell’intero passato di una comunità. Era legno nuovo, impersonale, che non le aveva trasmesso niente quando l’aveva toccato.
Neppure le parole del prete dicevano niente; don Vincenzo apriva e chiudeva la bocca, ma non usciva un suono che penetrasse le sue orecchie. Era come avvolta da una bolla di ovatta, con un muto rimbombo nelle orecchie. Lei vedeva, guardava e sentiva, ma come se quei suoni provenissero da talmente lontano da risultare inudibili, come se quelle immagini fossero osservate solo automaticamente dai suoi occhi, ma non arrivassero al suo cervello.

Sono le prime parole del libro, un incipit che introduce e riflette lo stile dell'autrice.
Ma arriviamo alla storia.
Siamo a Castelfidardo, Ancona, nell'estate del 1860. Elisabetta Poggi ha dedicato tutta la sua vita adulta all’assistenza dei suoi genitori e ora, a trentatré anni, è una zitella orfana di entrambi.
Spaesata e frastornata, non avendo più l'incombenza di accudire la madre malata da tempo, in un primo momento trascorre le giornate di lutto quasi alla deriva finché non trova uno scopo per andare avanti.

Questa è la mia proprietà, e il terreno è fertile, è buono. Non sta bene lasciarlo incolto... mio padre non vorrebbe. Io vorrei far ripartire l’azienda».

Antonio Pueroni ha trentun anni - Il vecchio padron Virgilio, buonanima, l’aveva preso sotto la sua ala quando era rimasto orfano, a sedici anni, e da quel momento aveva svolto per i Poggi le mansioni più disparate: tutte quelle richieste in quella che era stata un tempo una grande fattoria. -, è l'unico membro della servitù rimasto in casa Poggi, anzi è l'unica persona, oltre Elisabetta, ad abitarla. Le sue mani - larghe, con la pelle calda e abbronzata, e il palmo reso calloso da decenni di lavoro - sono una grande risorsa al servizio della sua padroncina.
Un desiderio inaspettato, però, si affaccia nelle vite dei due giovani, risvegliato in Antonio dall'aspro monito a mantenere rigorosamente le distanze della cugina Sofronia, intenzionata ad affiancare Elisabetta nella gestione della tenuta.

In quindici anni nella tenuta dei Poggi, Antonio non era mai entrato veramente in confidenza con le padrone, solo con il vecchio padron Virgilio, e aveva soltanto badato alle sue faccende con la terra e con gli animali. Per via delle parole di Sofronia, che voleva ottenere tutt’altro obiettivo, alzò gli occhi e si mise a considerare quella padrona zitella, sola, più vecchia di lui di un paio di anni, e per la prima volta gli vennero in mente pensieri che mai avrebbe pensato di rivolgere in quella direzione. E anche se la cosa gli sembrava aliena, adesso che gli era stata messa la pulce nelle orecchie, si era radicata e gli era impossibile scacciarla.

C'è stupore e meraviglia nel rivelarsi, nel conoscersi, conforto nella vicinanza e sconcerto di fronte alla rivelazione dell'impensabile.

«Sì, ho deciso: la terra va coltivata. Bisogna chiamare uomini; ci pensavo anch’io. Hai il mio consenso». E Elisabetta stese una mano verso di lui per siglare il patto.
Non capitava tutti i giorni di stringere la mano ad una donna per un accordo d’affari. O che un padrone accondiscendesse a stringere la mano a un sottoposto. Antonio fu toccato. Le strinse la mano, e si sorprese nel trovarla ferma e solida, senza tremori né debolezza.
In tutta la faccenda la signorina Elisabetta aveva mostrato del nerbo.
Lasciatale la mano, alzò lo sguardo sul suo viso, animato da un senso di soddisfazione. La luce si riflesse per un attimo negli occhi di lei, tingendoli di verde, e per un momento si trovò a fissarli, in silenzio.

Antonio sentiva, ogni giorno che passava, che lei lo attirava sempre più nella sua sfera. Si sentiva circondato; era come entrare in un campo con il grano alto e sentirsi avviluppato sui quattro lati dalle spighe morbide. Nella sua giornata c’era lei.

Il dolce e prorompente sentimento che nasce tra Elisabetta e Antonio è però messo a dura prova dalla mentalità rigida della società dell'epoca, ancor più evidente nell'ambiente ristretto del piccolo paese; ingerenze e trame creano una frattura che separa i due giovani. 
Recensire questo libro è stato difficile per me: è mia consuetudine sottolineare i passi che trovo più significativi, quelli che mi hanno colpito maggiormente, e pubblicare gli estratti all'interno della mia valutazione personale, ma in questo caso ho dovuto frenare il mio istinto, sono troppi, tutti bellissimi.
Cecilia Latella racconta l'evoluzione di un rapporto inatteso, di due solitudini ormai rassegnate a restare tali, che piano piano scoprono la gratificazione della condivisione, la comprensione, la reciproca sollecitudine e...  la passione, un'attrazione inimmaginabile, così forte da togliere il respiro.
Elisabetta, in un primo momento donna sola e indifesa, impaurita e timorosa della nuova condizione in cui vive, a poco a poco tira fuori il meglio di sé stessa, la sua forza non solo mentale ma anche fisica - le sue mani sono callose -, non si risparmia e così rinasce a nuova vita.
Antonio è in balia dei sentimenti che prova, nuovi e destabilizzanti, è un servitore ed Elisabetta è la sua padrona: pagherà cara la sua insicurezza, affrontando un lungo cammino mentre la guerra incombe perché le giubbe rosse sono vicine, la battaglia tra garibaldini e lo Stato della Chiesa è alle porte.
Mentre il paese si interroga sull'incerto futuro, figure marginali - il signor Nicola, Rocco, Nino e Mariangela -, ma significative per l'evolversi degli eventi, affiancano i due protagonisti ed emerge il sentimento che pervade il testo, l'amore per la terra.
Questo libro è molto particolare, ogni suo passo è una scoperta.

Non era possibile continuare a galleggiare in quel fluido pastoso che lo spingeva verso Elisabetta, non era possibile poterla, doverla chiamare col suo nome e non fare niente; doveva provare a fare qualcosa, in modo che quel galleggiamento smettesse, e lui precipitasse nel fondo o raggiungesse la riva.

«C’è qualcos’altro da fare per oggi?» chiese lei, guardando le colline in lontananza.
«No. Ti puoi riposare e ammirare il tramonto» rispose Antonio, abbracciandola da dietro. Elisabetta reclinò la testa sulla sua spalla e si abbandonò a quella onnipervasiva sensazione di bellezza.

A me è piaciuto moltissimo.


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