Buon pomeriggio amici lettori!
In anticipo sui tempi, è online "Summer killer love",
il nuovo romanzo di Ashley Andrews.
Titolo: Summer killer love
Autore: Ashley Andrews
Genere: Romance
Disponibile in ebook a € 4,90
A breve anche in formato cartaceo
Pagina autore: I libri di Ashley Andrews
TRAMA:
È stato straziante, per la ventitreenne infermiera Amy Johnson, dire addio ai nonni, morti un mese prima. Li ha accuditi fin dall’adolescenza, costretti a letto, e il sacrificio le ha lasciato “il Problema”. “Il Problema” ha la sgradevole proprietà di causarne molti altri, come la prospettiva di trascorrere le ferie estive da sola. Il fatto è che Amy - faccia da bambina e una passione per gli abiti anni ’50 - , ha una fobia da contatto. Nella sua vita professionale si barda di protezioni come nessun altro. Eppure, quando il paziente della Sala Uno, in astanteria, comincia ad agonizzare avvelenato da una sostanza radioattiva, lei non può non commuoversi per come l’uomo invoca la moglie. Le ricorda il vero amore dei nonni, inseparabili fino alla fine, e lo aiuta, unica tra tutte le infermiere. Peccato che il paziente sia un sicario internazionale e che, per giunta, in punto di morte, le chieda di trovare un altro killer e di consegnargli una lettera.
Amy, per accontentarlo, finge di acconsentire, ma non potrebbe mai fare un’assurdità simile! Mettersi sulle tracce di tale Prothero, la leggenda internazionale dei killer a contratto, con gli occhi di brace, annidato per le vacanze estive in un capanno sul Redfish Lake.
Già. Quale strada si deve fare per raggiungere il Redfish Lake, esattamente?
Una strada lunga e tortuosa, come quella che porta al cuore spietato di Prothero. Per morire o per rinascere insieme.»
DICE L’AUTRICE:
Questo libro nasce dai tutti i fantastici assassini di cui mi innamoro leggendo i thriller dei grandi a cui però gli autori non riescono a far vivere una storia d’amore degna di questo nome.
«Ho solo una cosa da dirvi, se siete dei killer internazionali a contratto, state alla larga dalla fidanzata d'America.
Perché quando il gioco si fa duro, le fidanzate cominciano a giocare.»
BREVE ESTRATTO:
Questo messaggio si autodistruggerà.
La solita Amy Johnson, con il naso all’insù, la pelle bianco latte e i capelli a boccoli di uno strano colore biondo-rosato. Che parlava da sola, in lacrime, davanti alla finestra, con lo sguardo fisso a due vasi blu, decorati in oro. Questo stava sicuramente guardando Vernon, spiandomi, come faceva ogni mattina, dall’edificio di fronte. Non si stufava mai?
Rivolsi un ultimo sguardo umido alle urne cinerarie dei nonni, affiancati sulla mensola, davanti alla finestra del secondo piano, sopra la tavola calda. L’abitudine a salutarli ogni mattino, ancora, non mi era passata. Era un mese che non potevo più accarezzare loro le mani, inserendomi tra i loro due letti affiancati, nella camera grande in fondo al corridoio. Se ne erano andati, mi avevano lasciata completamente sola.
Con un sospiro, controllai di aver messo in borsetta i preziosi presidi di protezione individuale. Mi chiusi la porta alle spalle e, sul marciapiede, salutai Vernon, sceso in velocità, come sempre, ad aspettarmi per darmi il buongiorno. Gli sorrisi per abitudine, avevamo già avuto il nostro momento tre anni prima. Lui era attratto da me solo perché respiravo ed ero sottomano, in quanto sua vicina. Non era scattato quel qualcosa. Quel qualcosa tipo l’amore vero, come quello tra il nonno e la nonna, per tutta la vita, innamorati fino alla fine. E prima di loro, anche per i miei genitori era stato lo stesso. I nonni erano stati sempre dolcissimi tra loro, ma anche con me. Del tutto non autosufficienti da anni, e costretti a letto, si erano mantenuti lucidi fino a due anni prima e, con lo svanire della loro mente mnemonica, “il Problema” mi aveva investito come una lettiga lanciata nel corridoio risvegli a quaranta miglia orarie. Cosa peraltro realmente accadutami. Magari “il Problema” fosse stato risolvibile come quella lussazione alla caviglia. Due anni prima una maledetta depressione mi aveva lasciata in balia di manie assurde, come una strana fobia del contatto, o misofobia, per cui mi ritraevo, alla sola idea di sfiorare qualcosa di vivo o che poteva essere stato a contatto con qualcosa di vivo. Ormai erano più di due anni che mi facevo bastare un ragazzo immaginario, fantasticando sulle sue mani grandi, lo sguardo morbido e le spalle ospitali. Mi addormentavo ogni sera, poggiandogli la guancia sul petto. Socchiusi le palpebre e mi dipinsi un panorama mozzafiato, un luogo appartato, romantico, e le braccia grandi di un ragazzo, piene di amore e di sicurezza, richiuse intorno a me, deciso a trattenermi il viso appoggiato sul suo petto per sempre. Quello era il mio sogno.
Sospirai deliziata e risi di me stessa, biasimandomi un po’, e accelerai il passo, già con la mente alle mie mansioni all’ospedale per il mio ultimo giorno di lavoro, prima delle ferie estive. Fino a pochi giorni prima mi ero figurata di doverle trascorrere integralmente a casa, per riordinare le vecchie cose lasciate dai nonni, scegliere cosa buttare e cosa tenere. Poi però Darlene aveva avuto un imprevisto col fidanzato e mi aveva convinto ad andare per tre giorni a Glenada sull’Oceano, con lei, in Oregon. L’indomani all’alba, saremmo partite alla “Thelma e Louise”.
Aspettai che scattasse il verde e mi diressi al parcheggio, incrociando le dita. Darlene aveva una gran chioma di riccioli neri e la sua allegria disinvolta non era priva di una certa malizia nell’usare i rapporti interpersonali. Speravo che non mi canzonasse tutto il tempo per via “del mio Problema”! Solo l’idea di far pipì in un posto pubblico mi dava l’angoscia. “Il Problema” era infatti veramente tale per la mia vita sociale, la faceva fallire miseramente. Non solo, avevo vissuto per anni, come una reclusa, per accudire i miei nonni, ma da due anni a quella parte, rifuggivo da qualsiasi contatto di qualsiasi tipo. Il che peggiorava, ovviamente, il mio stato depressivo. E così, il dolore era ancora intatto, lo stesso di quando, per la prima volta, circa un mese prima, ero uscita di casa senza più nessuno da salutare. Nonni morti, zero vita, zero amici: le ferie imminenti sarebbero state un lungo eremitaggio nel mio appartamento, se non fosse stato per Darlene.
Mi morsi il labbro inferiore lanciando un ultimo pensiero alla casa soffocante, ormai distante mezzo miglio, alle mie spalle, in pieno centro. La casa era relativamente storica, ma non per questo di lusso, tutt’altro. Era storica perché l’avevano costruita praticamente i miei nonni, quasi cento anni prima, un’era da quelle parti. Era carina, se non fosse stato che, con l’afa di luglio, e con sotto una tavola calda, era praticamente una fornace in quella stagione. Passarci le ferie sarebbe stato un incubo.
Aprii la portiera e sparai subito l’aria condizionata della Cadillac De Ville dei nonni, un carro armato di vent’anni, color crema e ancora affidabile. Mi rilassai al digradare di Nampa, volgendo lo sguardo al cielo azzurrissimo e alla città piatta intorno a me. Era Nampa nell’Idaho, non Tampa in Florida. Mi occorreva specificarlo, se telefonavo fuori Stato a qualche fornitore dell’ospedale. Era una piccola città adagiata nel deserto agricolo e montano dell’Idaho. Lasciai vagare lo sguardo triste sul quartiere industriale al centro del quale si snodava l’edificio basso del Saint Apollonius Medical Center, tra silos e capannoni. Non c’era nulla, lì, capace di risollevarmi. Le dita si destreggiarono automaticamente per calzare la mascherina, la cuffia in TNT, la visiera e i guanti in nitrile, poi i piedi toccarono l’asfalto e mi strinsi nel grembiule di garza. Puntai a testa alta il neon cubitale del pronto soccorso e mi inoltrai rapida nell’accettazione, fino a svoltare nell’astanteria. La medicina d’urgenza si riduceva a un grande corridoio con sale a destra e a sinistra, con in fondo le stanze di servizio per medici e infermieri. Il pavimento era di lucidissimo gres porcellanato blu scuro, cosparso di pagliuzze dorate. Le prime volte, mi faceva uno strano effetto camminarci sopra, avevo paura di affondare nello spazio. E in realtà c’era molto di spaziale per come mi presentai con guanti, mascherina, copri scarpe e visiera per proteggere gli occhi. Ero l’unica a bardarmi in quel modo, ma era per via “del Problema”. “Il Problema” era davvero ciclopico facendo l’infermiera, ma ero riuscita a spacciarlo come scrupolosa osservanza delle norme di igiene e, considerata la mia buona volontà al lavoro, mi venivano risparmiate le sedute più cruente, con traumi che presentassero grandi quantità di sangue. Anche in quel caso estremo tuttavia, riuscivo a bardarmi di tuta hazmat e fare ciò che dovevo. Un po’ i dottori e la caposala sbuffavano e i colleghi mi prendevano in giro. Così per evitare sorrisini, nemmeno mi guardai intorno, entrando in astanteria, almeno finché non fui raggiunta dalle urla strazianti della Sala Uno. Furono quelle a farmi alzare la testa.
“Ashley” l’ha scelto Anna Letizia, “Andrews” l’ha scelto Monica. Monica Montanari, vecchia bastarda, e Anna Letizia Zocche giovane, introversa, romantica, si sono accordate affinché Ashley Andrews, 42 anni, viva ad Ashton, in Idaho, con un marito sexy e un meraviglioso gatto rosso di nome Sid. La Andrews ha sbancato con Snow INN Love, un successo poi confermato da My Fired Valentine, e da The Best Gift for Mom, facendo dei seasonals il proprio territorio di caccia.
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